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Scilla (Σκύλλα)

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Statuetta bronzea di Scilla di fine IV secolo a.C., Museo archeologico nazionale di Atene

Scilla (in greco antico: Σκύλλα, Skýlla) è un mostro marino della mitologia greca.

Secondo la versione più comune, Scilla è figlia delle divinità marine Forco e Ceto. Secondo la tradizione riportata dall’Odissea, invece, sua madre è la ninfa Crateide. Altre leggende la dicono nata da Forbate e da Ecate, oppure da quest’ultima e Forco. La si considerava anche figlia di Tifone ed Echidna, oppure di Zeus e di Lamia, a sua volta figlia di Poseidone.

Scilla viene descritta da Omero nell’Odissea, XII, 112, da Ovidio nei libri XIII-XIV delle Metamorfosi e da Virgilio nell’Eneide, III.

Mito

Glauco e Scilla in un dipinto di Jacques Dumont
Cratere del 450-25 a.C. raffigurante Scilla con tronco di fanciulla (armata di spada), teste di cani feroci in vita e coda di mostro marino, oggi al Museo del Louvre.

Secondo Servio e Giovanni Tzetzes, Scilla era in origine una bellissima naiade di cui si sarebbe invaghito Poseidone; allora Anfitrite, sposa del dio del mare, la trasformò in un terribile mostro versando una pozione nello specchio d’acqua dove Scilla era solita fare il bagno.

Secondo quanto raccontato da Igino e Ovidio, in origine Scilla era una ninfa dagli occhi azzurri, che viveva nell’odierna Calabria ed era solita recarsi sulla spiaggia di Zancle (corrispondente all’odierna Messina) e fare il bagno nell’acqua del mare. Una sera, vicino alla spiaggia, vide apparire dalle onde Glauco, che un tempo era stato un mortale, ma oramai era un dio marino metà uomo e metà pesce. Scilla, terrorizzata alla sua vista, si rifugiò sulla vetta di un monte che sorgeva vicino alla spiaggia. Il dio, vista la reazione della ninfa, iniziò ad esclamare il suo amore, ma Scilla fuggì lasciandolo solo nel suo dolore. Allora Glauco si recò dalla maga Circe e le chiese un filtro d’amore per far innamorare la ninfa di lui, ma Circe, desiderando il dio per sé, gli propose di unirsi a lei. Glauco si rifiutò di tradire il suo amore per Scilla e Circe, furiosa per essere stata respinta al posto di una ninfa, volle vendicarsi. Quando Glauco se ne fu andato, preparò una pozione malefica e si recò presso la spiaggia di Zancle, versò il filtro in mare e ritornò alla sua dimora. Quando Scilla arrivò e s’immerse in acqua per fare un bagno, vide crescere molte altre gambe di forma serpentina accanto alle sue, che nel frattempo erano diventate uguali alle altre. Spaventata fuggì dall’acqua, ma, specchiandosi in essa, si accorse che si era completamente trasformata in un mostro enorme ed altissimo con sei enormi teste di cane lungo il girovita, un busto enorme e delle gambe serpentine lunghissime. Secondo alcuni dalla vita in su manteneva il corpo di una fanciulla, mentre per altri possedeva sei teste serpentine altrettanto mostruose. Per l’orrore Scilla si gettò in mare e andò a vivere nella cavità di uno scoglio vicino alla grotta dove abitava anche Cariddi.

Nel XII libro dell’Odissea, Circe consiglia a Ulisse di navigare più vicino a Scilla, perché Cariddi potrebbe affondare l’intera nave, suggerendogli anche di chiedere a Crateide, madre di Scilla, di impedire alla figlia di balzare sulle navi più di una volta. Ulisse naviga con successo nello stretto, ma quando lui e il suo equipaggio vengono momentaneamente distratti da Cariddi, Scilla cattura sei marinai e li divora vivi.

Dall’altra parte havvi due scogli: l’uno
Va sino agli astri, e fosca nube il cinge
Nè su l’acuto vertice, l’estate
Corra, o l’autunno, un puro ciel mai ride.
Montarvi non potrebbe altri, o calarne,
Venti mani movesse, e venti piedi:
Sì liscio è il sasso, e la costa superba.
Nel mezzo volta all’Occidente, e all’Orco
S’apre oscura caverna, a cui davanti
Dovrai ratto passar: giovane arciero,
Che dalla nave disfrenasse il dardo,
Non toccherebbe l’incavato speco.
Scilla ivi alberga, che moleste grida
Di mandar non ristà. La costei voce
Altro non par, che un guajolar perenne
Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce
Mostro, e sino ad un Dio, che a lei si fesse,
Non mirerebbe in lei senza ribrezzo.
Dodici ha piedi, anterïori tutti,

Sei lunghissimi colli, e su ciascuno
Spaventosa una testa, e nelle bocche
Di spessi denti un triplicato giro,
E la morte più amara in ogni dente.
Con la metà di sè nell’incavato
Speco profondo ella s’attuffa, e fuori
Sporge le teste, riguardando intorno,
Se delfini pescar, lupi, o alcun puote
Di que’ mostri maggior, che a mille a mille
Chiude Anfitrite ne’ suoi gorghi, e nutre.
Nè mai nocchieri oltrepassaro illesi:
Poichè quante apre disoneste bocche,
Tanti dal cavo legno uomini invola.

(Omero – Odissea (Antichità)
Traduzione dal greco di Ippolito Pindemonte 
Libro XII – vs.100 – 131)

Ma tu, che il timon reggi, abbiti in mente
Questo, nè l’obbliar: guida il naviglio
Fuor del fumo, e del fiotto, ed all’opposta
Rupe ognor mira, e ad essa tienti, o noi
Getterai nell’orribile vorago.
Tutti alla voce mia ratto ubbidiro.
Se non ch’io Scilla, immedicabil piaga,
Tacqui, non forse, abbandonati i banchi,

L’un sovra l’altro per soverchia tema
Della nave cacciassersi nel fondo.
E qui, di Circe, che vietommi l’arme,
Negletto il disamabile comando,
Io dell’arme vestiami, e con due lunghe
Nell’impavida mano aste lucenti
Salia sul palco della nave in prua,
Attendendo colà, che l’efferata
Abitatrice dell’infame scoglio
Indi, gli amici a m’involar, sbalzasse:
Nè, perchè del ficcarli in tutto il bruno
Macigno stanchi io mi sentissi gli occhi,
Da parte alcuna rimirarla io valsi.
Navigavamo addolorati intanto
Per l’angusto sentier: Scilla da un lato,
Dall’altro era l’orribile Cariddi,
Che del mare inghiottia l’onde spumose.
Sempre che rigettavale, siccome
Caldaja in molto rilucente foco,
Mormorava bollendo; e i larghi sprazzi,
Che andavan sino al cielo, in vetta d’ambo
Gli scogli ricadevano. Ma quando
I salsi flutti ringhiottiva, tutta
Commoveasi di dentro, ed alla rupe
Terribilmente rimbombava intorno,

E, l’onda il seno aprendo, un’azzurrigna
Sabbia parea nell’imo fondo: verdi
Le guance di paura a tutti io scôrsi.
Mentre in Cariddi tenevam le ciglia,
Una morte temendone vicina,
Sei de’ compagni, i più di man gagliardi,
Scilla rapimmi dal naviglio. Io gli occhi
Torsi, e li vidi, che levati in alto
Braccia, e piedi agitavano, ed Ulisse
Chiamavan, lassi! per l’estrema volta.
Qual pescator, che su pendente rupe
Tuffa di bue silvestre in mare il corno
Con lunghissima canna, un’infedele
Esca ai minuti abitatori offrendo,
E fuor li trae dall’onda, e palpitanti
Scagliali sul terren: non altrimenti
Scilla i compagni dal naviglio alzava,
E innanzi divoravali allo speco,
Che dolenti mettean grida, e le mani
Nel gran disastro mi stendeano indarno.
Fra i molti acerbi casi, ond’io sostenni,
Solcando il mar, la vista, oggetto mai
Di cotanta pietà non mi s’offerse.

(Omero – Odissea (Antichità)
Traduzione dal greco di Ippolito Pindemonte 
Libro XII – vs.286 – 341)

Nel destro lato è Scilla; nel sinistro
È l’ingorda Cariddi. Una vorago
D’un gran baratro è questa, che tre volte
I vasti flutti rigirando assorbe,
e tre volte a vicenda li ributta
Con immenso bollor fino a le stelle.
Scilla dentro a le sue buie caverne
Stassene insidïando; e con le bocche
de’ suoi mostri voraci, che distese
tien mai sempre ed aperte, i naviganti
Entro al suo speco a sé tragge e trangugia.
Dal mezzo in su la faccia, il collo e ’l petto
ha di donna e di vergine; il restante
g’una pistrice immane, che simíli
a’ delfini ha le code, ai lupi il ventre.
Meglio è con lungo indugio e lunga volta
girar Pachino e la Trinacria tutta,
che, non ch’altro, veder quell’antro orrendo,
sentir quegli urli spaventosi e fieri
di quei cerulei suoi rabbiosi cani.
(Virgilio, Eneide, Libro III, 675-694, versione di Annibale Caro)

Fra Partenope, e ’l Tebro, appresso al mare
À Gaeta vicin fea già soggiorno
Circe, una maga accorta, e singulare,
Che nacque de lo Dio, ch’apporta il giorno.
L’altere prove sue stupende, e rare,
C’havean ripieno il mondo d’ogn’intorno,
Fer, che Glauco ver lei rivolse il corso,
Per havere al suo mal qualche soccorso.
Tornato Glauco in mar, drizza la fronte,
Spinto dal novo amor, verso occidente;
E lascia à man sinistra à dietro il monte,
Onde essala Tifeo la fiamma ardente,
E i campi, che non mai gli oltraggi, e l’onte
Sentir del crudo aratro, ò del bidente.
Dove condusser tanti al punto estremo
I fratelli empi, e rei di Polifemo.

Giunge poi dove il mar continuo stride,
Dove già il terremoto aprì la terra.
E ’l regno Ausonio, e ’l Siculo divide
Co’l maligno canal, ch’ivi si serra.
Indi à man destra il bel paese vide,
Dove la manna il ciel benigno atterra.
Lasciando à dietro poi la bella, e vaga
Costa Partenopea, giunge à la maga.

Passa la prima, e la seconda porta,
E de la fata illustre à servi chiede
Fin ch’ in un prato, ov’ella si diporta,
Giunge, e fa riverente il ciglio, e ’l piede.
Poi che da Glauco, e da la maga accorta
Il saluto reciproco si diede,
Lo Dio marin co’l volto afflitto, e mesto
Cosi il bisogno suo fe manifesto.

Ben mostra il tuo sublime, e chiaro ingegno,
Circe, che l’alma tua fra noi discende
Da quello illustre Dio splendido, e degno,
Dal quale ogni altro lume il lume prende.
Da quel, che co’l montar di segno in segno
Il giorno, e la stagion varia ne rende.
Ben le tue maraviglie uniche, e sole
Mostran, che vera sei figlia del Sole.

Tu de le stelle intendi il vario corso,
E sai quel, che l’incanto, e l’herba vale.
Però rimedio à te chieggo, e soccorso,
Che puoi dar solo aita al mio gran male.
Il tuo prudente, e magico discorso
Può sanare ogni piaga aspra, e mortale
Pietà pietà del mio misero core,
Cui pur dianzi lo stral piagò d’Amore.

Fra quanti mai gustar la pena acerba
D’Amor, non v’è chi ben sappia, com’io,
Quanto sia grande la virtù de l’herba,
Per quel, ch’ io ne provai nel corpo mio.
Però che la virtù, ch’ivi si serba,
Mi fe d’un’ huom mortal venire un Dio:
Non però le conosco, e son venuto
À te, che ne sai l’arte, per aiuto.

Scorrendo, come soglio, la marina,
Pur dianzi al lito Italico io mi porsi,
Là dove incontro al muro di Messina
Scilla nomata una fanciulla scorsi,
D’una beltà si rara, e si divina,
Ch’à quante ne fur mai, puote antiporsi.
Tanto, ch’à pena in lei fermai lo sguardo,
Che in me s’accese il foco, ond’ arsi, et ardo.

Ogni dolce parola, e grato invito
Mossi ver lei con ogni humano affetto.
M’offersi per amante, e per marito,
Di far comun con tutti i beni il letto.
Ne però volle mai prender partito
D’unirsi meco al coniugal diletto:
Anzi fuggendo ogni promessa gioia,
Mostrò me co’ miei preghi havere à noia.

Hor tu, se qualche forza è nell’incanto,
Ó se pur l’herba in questo è più efficace,
Compiaci al prego mio, fa per me tanto,
Ch’io la disponga à l’amorosa pace.
Non prego già, che tu per tormi il pianto
Scacci da me l’ardor, che mi disface:
Ma ben, che in mio favore oprar ti piaccia,
Ch’ella di me s’accenda, e mi compiaccia.

In quanti luoghi mai girando apparse
Il bel Pianetta, che distingue l’hore,
Non vide alcuna mai più pronta à darse
Di Circe in preda à l’otioso amore.
Si tien, che Citherea per vendicarse
Contra il suo, che l’offese, genitore,
L’accese il cor di si lascive brame,
Per fargli anchor quest’altra figlia infame.

La maga havea lo Dio marino à pena
Visto, e sentito il suo dolce lamento,
Che punta fu da l’amorosa pena,
E per lui novo al cor sentì tormento.
Dunque per far, che la carnal catena
L’unisse à lei, cosi mosse l’accento.
Degno non è, ch’altrui tu porga preghi,
Ma ben, ch’ogni alta Dea te brami, e preghi.

Se Scilla fugge te, dei fuggir lei;
Sprezzar la sua beltà, s’ella ti sprezza.
E s’alcun’altra t’ama, amarla dei,
E stimar chi la tua stima bellezza.
Io t’amo, volentier da te torrei
Quel dolce ben, che piu in amor si prezza.
Hor se dunque hai chi del tuo amor si strugge,
Ama chi t’ama, e fuggi chi ti fugge.

Ecco io, che l’arte maga à pieno intendo,
Che sò si bene usar l’herbe, e gl’incanti ,
Che da quel chiaro Dio del ciel discendo,
Che tutti i lumi alluma eterni, e santi:
Al cupido amor tuo pronta mi rendo,
E te de l’onde Dio scelgo fra tanti.
Deh fa, volgendo à me le voglie tue,
Con un sol fatto il debito ver due.

Glauco, che da la maga istessa intende,
Ch’ei l’ha co’l suo bel guardo arsa, e ferita;
E quel, ch’ella vorria, nel cor ne prende
Non senza gran cagion doglia infinita.
Che sà, che per lo fin, ch’ella n’attende,
Non è ne l’amor suo per dargli aita.
Hor per torle ogni speme, e per ritrarla
Dal suo novo desio, cosi le parla.

Mi stà talmente impressa in mezzo al core
L’imagin di colei, di cui t’ho detto:
Che m’hai da perdonar, s’à novo amore
Non posso dare albergo entro al mio petto.
Si vedrà pria la tortora, e l’astore
Unirsi insieme al coniugal diletto;
E fare insieme il nido, i figli, e l’ova,
Che mi scolpisca il cor bellezza nova.

Prima farà del sasso adamantino
Scarpel di piombo statue illustri, e conte;
Di cedri, aranci, e palme il giogo Alpino,
E non di neve, ornata havrà la fronte;
E ’l fiume à l’erta andrà su l’Apennino
Per trovar la quiete in cima al monte,
Che bellezze giamai d’altra donzella
L’alma di novo amor mi faccia ancella.

Sdegno non è, ch’à quel possa agguagliarsi,
Ch’ in un cor feminil nascer si vede,
Quando da chi desia, vede sprezzarsi,
Essendo ella colei, che l’huom richiede.
S’arma, subito irata à vendicarsi:
Ma ’l troppo amor però non lo concede,
Ch’offender possa quel per cui sospira,
Onde rivolge altrui lo sdegno, e l’ira.

Tutto volge à colei l’ira, e lo sdegno,
Ch’al marin Nume il core accende, e piaga.
E tutta in opra pon l’arte, e l’ingegno
Per farla meno amabile, e men vaga.
Osserva à tempo ogni Pianeta, e segno,
Ed ogni opra propitia à l’arte maga;
E pesta (mormorando i propri carmi)
L’herbe, che fan mestier ne’ cavi marmi.

Poi c’hebbe pesta, e tolto il succo à l’herba,
E postesi le vesti, infauste, e nere,
Uscì de la sua corte alta, e superba
Fra mille, e mille adulatrici fiere.
L’afflitto Dio da la sua pena acerba,
Che non sà il suo pensier, si stà à vedere.
La scorge al fine entrar su’l marin flutto,
E correr per lo mar co’l piede asciutto.

Lo Dio ne l’onda anch’egli entra marina,
Che veder brama il fin del suo pensiero,
E per tutto, ove il passo ella incamina,
Segue l’acceso Dio non men leggiero:
Al fine incontro al muro di Messina
La maga pon la meta al suo sentiero.
Quivi l’irata Dea ritenne il passo,
Dove cavata havea l’onda un gran sasso.

In questo sen di mar cinto d’intorno
Da cavi sassi andò la maga à porse.
Dove, quando era il Sole al mezzo giorno,
E fea l’ombra minor gir verso l’Orse,
Solea talhor colei farsi soggiorno,
Cui per mal di ambedue Glauco già scorse.
Là dove entrata, e sciolta il crine e ’l manto,
S’aggira intorno, e dice il mago incanto.

Poi che di succhi, e d’herbe velenose
Scorse infettate à pieno haver quell’onde,
À gli occhi de lo Dio marin s’ascose,
Senza partir però da quelle sponde.
Ne molto andò, che ignuda ivi si pose
Per far le membra sue purgate, e monde
Scilla, e per torsi al sol, poi ch’esser giunto
Fra la sera, e ’l mattin lo scorse à punto.

Si bagna à pena Scilla entro à quel lago,
Lo qual pur dianzi havea la maga infetto,
Che l’iniquo veleno, e ’l verso mago
Comincia à fare il suo crudele effetto.
Quel corpo, c’havea pria si bello, e vago,
Diviene un schivo, e mostruoso obbietto.
E già nel fianco, e nelle basse membra
In ogni parte à Cerbero rassembra.

Ella meglio vi guarda, e anchor no’l crede,
E ’l pel tocca, e la pelle hirsuta, e dura.
Ma quando chiaro al fin conosce, e vede,
Che tutta è can di sotto à la cintura,
Si straccia il crine, e ’l volto, e ’l petto fiede,
E tale ha di se stessa onta, e paura,
Che fugge il novo can, seco s’adira,
Ma fugga ovunque vuol, dietro se’l tira.

Per lo mar, per gli scogli, e per la sabbia
Sdegnata il nuoto, il salto, e ’l corso stende,
E tanto più d’ ira maggior arrabbia,
Quanto più nel suo can le luci intende.
Serba lo stesso ardor, la stessa rabbia,
Onde si tosto il can d’ira s’accende.
Dove al fin fe di cane i piedi, e ’l tergo,
Si torna, e quivi il proprio elegge albergo.

Tosto, che Circe la fanciulla scorge
Senza una parte de le membra humane,
Scoperta al marin Dio preghi gli porge,
Che la forma d’amor resti d’un cane
Piange lo Dio marin, come s’accorge
De l’altre membra sue biformi, e strane;
Sprezza, e fugge la maga empia, e superba,
Che troppo usò crudel l’incanto, e l’herba.

Si scusò con la Ninfa, e le scoperse,
Che l’empia Circe infette havea quell’acque,
Ma ben si vendicò, come s’offerse
Il tempo, e ben più d’un morto ne giacque.
Che Greci assai di quei nel mar sommerse,
À cui seguire il saggio Ulisse piacque,
Che Circe à Ulisse poi l’amor rivolse,
E Scilla molti à lui compagni tolse.

(Le metamorfosi di Ouidio, ridotte da Giouanni Andrea dell’Anguillara in ottaua rima)

Secondo un mito più tardo, riportato da Tzetzes e da Eustazio di Tessalonica, in seguito Eracle uccise Scilla dopo averla incontrata durante uno dei suoi viaggi, ma il padre di lei Forco pose sul suo corpo delle torce fiammeggianti che la riportarono in vita.

Scilla e Cariddi: Il Racconto del Mare

di Carmelo Szumskyj

Una volta, in un tempo lontano e misterioso, il mare tra l’Italia e la Sicilia era dominato da due creature spaventose: Scilla e Cariddi. Le leggende narrano che queste due mostruosità marine erano responsabili di innumerevoli naufragi e di immense tragedie.

Scilla era una ninfa un tempo bellissima, figlia di Forco, il dio del mare. Viveva felicemente sulle coste della Calabria, giocando tra le onde e incantando tutti con la sua bellezza. Un giorno, però, il destino le fu avverso. Glauco, un mortale trasformato in divinità marina, si innamorò di lei perdutamente. Ma Scilla non ricambiava i suoi sentimenti. Disperato, Glauco si rivolse alla maga Circe per chiedere un filtro d’amore. Circe, innamorata a sua volta di Glauco, presa dalla gelosia, decise di vendicarsi.

Con un inganno, Circe versò nel mare una pozione che trasformò Scilla in un mostro terribile con dodici piedi e sei teste, ognuna con tre file di denti aguzzi. La bellissima ninfa fu così condannata a vivere nelle profondità del mare, nascosta in una grotta sulla costa della Calabria, da dove terrorizzava i marinai che osavano avvicinarsi troppo.

Dall’altro lato dello stretto, si trovava Cariddi. Figlia di Poseidone e Gea, Cariddi era stata una giovane e bella ninfa marina, conosciuta per la sua insaziabile fame. Un giorno, per aver rubato del bestiame a Eracle, Zeus la punì trasformandola in un mostro marino capace di inghiottire enormi quantità d’acqua e risputarla tre volte al giorno. Questa mostruosa trasformazione avvenne vicino alla costa della Sicilia, dove Cariddi creò un vortice così potente che risucchiava e distruggeva qualsiasi nave che si avventurava troppo vicino.

Il terrore di Scilla e Cariddi si diffuse rapidamente tra i marinai. Gli uomini di mare raccontavano storie di navi frantumate sugli scogli da Scilla, le cui teste si protendevano per afferrare e divorare gli uomini urlanti. Allo stesso modo, il gorgo di Cariddi inghiottiva interi equipaggi, risputando solo relitti e corpi senza vita.

Molti anni dopo, l’eroe Ulisse si trovò a navigare attraverso questo stretto infido. Consapevole del pericolo, consultò la maga Circe per ottenere consiglio. Circe gli spiegò che tra i due mali, avrebbe fatto meglio a scegliere Scilla, poiché perdere solo alcuni uomini era preferibile alla distruzione totale della nave. Così, Ulisse ordinò ai suoi uomini di remare con tutte le loro forze, mentre egli stesso preparò le armi. Quando le teste mostruose di Scilla emersero dall’ombra, Ulisse, impotente, vide sei dei suoi uomini strappati dalla nave e divorati davanti ai suoi occhi.

Ulisse e il suo equipaggio riuscirono a sfuggire a Cariddi per un pelo, grazie alla velocità con cui attraversarono lo stretto. Le storie delle loro gesta divennero leggenda, e così Scilla e Cariddi continuarono a essere ricordate come i mostri che proteggevano e sorvegliavano le acque tra la Calabria e la Sicilia.

Anche oggi, mentre le navi moderne solcano quelle stesse acque, si dice che i pescatori locali talvolta sentano strani rumori nelle profondità del mare, come l’eco lontana di un passato in cui mostri marini governavano indisturbati. La leggenda di Scilla e Cariddi rimane impressa nel cuore e nella mente di chiunque osi navigare attraverso quelle acque, un monito eterno del potere e della maestosità del mare.

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