Capsiana (cultura)

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Il capsiano (la cui denominazione rimanda a Capsa, il nome antico dell’odierna Gafsa) fu una cultura mesolitica del Nordafrica, che si può collocare, cronologicamente, tra il 10.000 e il 6000 a.C.

Indice

La cultura capsiana

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Essa è attestata nelle zone interne delle odierne Algeria e Tunisia, con possibili prolungamenti a ovest in Marocco e ad est in Cirenaica (Libia). Tradizionalmente viene diviso in due parti: il capsiano tipico, che secondo i primi studi veniva considerato più antico, e il capsiano superiore, che ne sarebbe stato una derivazione. Studi successivi hanno però dimostrato che i due tipi non si susseguivano cronologicamente ma spesso erano contemporanei, per cui la terminologia è in parte fuorviante. Ciononostante, per comodità si continuano ad utilizzare i due termini, che presentano il vantaggio di tenere comunque distinti due tipi abbastanza diversi: il capsiano tipico è caratterizzato da un’industria più voluminosa, ricca di lame e raschiatoi, mentre il capsiano superiore presenta una varietà molto maggiore di microliti geometrici.

Si usavano anche attrezzi d’osso, e si producevano oggetti decorati di vario tipo: gusci di uova di struzzo con disegni geometrici, usati come recipienti, oppure figurine di calcare a forma di animaletti o di conchiglie, una sorta di perline, probabilmente per fare collanine da usare come talismani. Una caratteristica dei siti capsiani è quella di essere spesso accompagnati da vasti cumuli di conchiglie (chiocciolai) (fr. escargotières, altrove si tende a usare il termine danese køkkenmøddinger o quelli inglesi shell middensshell mounds) e depositi scuri di ceneri; alcuni all’interno di caverne, altri all’aria aperta. Spesso si trovano vicino ad una sorgente o ad un valico.

In questo periodo, il clima della regione era quello delle savane, analogo a quello dell’Africa orientale odierna, con foreste mediterranee a maggiori altitudini. L’alimentazione del capsiano comprendeva numerosi animali -alcuni oggi estinti nella regione- che andavano dagli uri e alcelafi a lepri e lumache; si conoscono poco le specie vegetali che venivano consumate.

Dal punto di vista anatomico, i capsiani (in senso molto lato) erano moderni Homo sapiens, classificati in due tipi “razziali” distinti: Mechta-Afalou e Proto-mediterranei. Vi è chi (come ad esempio Ferenbach 1985) ha ipotizzato che essi provenissero da oriente, mentre altri (per esempio Lubell et al. 1984) sostengono una continuità di popolamento, basandosi sulle caratteristiche fisiche degli scheletri.

Sembra che già agli inizi del capsiano facessero la loro comparsa le prime pecore e capre addomesticate.

Nulla si sa della religione dei capsiani, ma le modalità delle loro sepolture fano pensare alla credenza nell’aldilà. Nei loro siti si trovano diverse espressioni artistiche, compresi disegni parietali figurativi ed astratti, e si sa che ampio uso veniva fatto dell’ocra per tingere gli utensili ma anche il corpo. Vi è chi ha scorto in numerose manifestazioni di arte rupestre del Tassili n’Ajjer la raffigurazione di un uso di funghi allucinogeni da parte di sciamani[1]; si tratta comunque di una teoria controversa. La pratica dell’avulsione degli incisivi attestata nell’Iberomaurusiano è continuata sporadicamente nel capsiano, ma si è fatta via via più rara.

I linguisti hanno spesso visto nella cultura capsiana quella che avrebbe apportato al Nordafrica la lingua degli antenati dei Berberi odierni.

Anche la cultura eburrana del XIIIVIII millennio a.C. nel Kenya viene chiamata “Capsiano del Kenya”, a causa della somiglianza nella forma delle lamine di pietra; non è però ben chiaro se questa cultura sia effettivamente da collegare al capsiano del Nordafrica.

Note

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  1. ^ Samorini/sahara_int, su web.archive.org, 16 gennaio 2006. URL consultato il 6 ottobre 2019 (archiviato dall’url originale il 16 gennaio 2006).

Bibliografia

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  • 2001D. Lubell. Late Pleistocene-Early Holocene Maghreb. In, P.N. Peregrine & M. Ember (eds.) Encyclopedia of Prehistory, Volume 1: Africa. New York: Kluwer Academic/Plenum Publishers, pp. 129–149.

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